Cinque anni fa stavo preparando il mio primo viaggio in Libano. I piccoli dettagli da risolvere
diventavano un passatempo sempre più insistente con il passare dei giorni, e controllare che il
passaporto fosse in regola si trasformava in un mantra ripetuto in ogni mail che ricevevo.
Era l’Ottobre del 2006, un mese esatto dopo la fine della guerra che aveva segnato la calda estate
medio orientale. Una serie di coincidenze iniziate da un campo di lavoro sospeso per gli improvvisi
bombardamenti a luglio, mi avevano catapultato in una delegazione dell’A.r.c.i. destinata ad un
sopralluogo di qualche giorno nel paese dei Cedri.
C’erano stati tanti incontri ufficiali dove il nostro gruppo annotava con cura punti di vista, richieste
e aspettative degli interlocutori più vari. Per farlo ci muovevamo da un luogo all’altro restando in
un continuo stato di viaggio, e i nostri sensi imparavano ad associare gli imput lanciati dai media
con quello che stavamo vivendo.
Erano lì, intorno a noi. La zona occidentale di Beirut portava ancora i segni dei raid, e infinite
punture di zanzara si distendevano sulle maggiori arterie di comunicazione. Andando verso sud le
deviazioni della carreggiata principale diventavano sempre più frequenti, e sembrava non esistesse
più un qualsiasi sottopassaggio che non fosse stato puntualmente centrato da un missile.
Il ricordo più vivo che ho, è quello che associo ad un villaggio al confine chiamato Bint Jbeil. A
distanza di tanto, le foto che si trovano su Google mi danno lo stesso identico pugno nello stomaco.
Polvere di guerra che si infila negli occhi, e fa male.
Era in quel punto che la Resistenza Libanese si era attestata bloccando le truppe di Tel Aviv. Gli
ultimi giorni di combattimento, quando era chiaro che la linea non avrebbe ceduto, avevano
piazzato i mortai intorno al villaggio per distruggere quello che si poteva. La stessa opera di
demolizione l’avevano fatta gruppi di caccia che si erano impegnati fino all’ultimo per liberarsi
delle cluster bombs in eccedenza, riversandole su obiettivi mirati scelti da talpe miopi. Il terreno
fangoso vicino alle scuole era risultato così particolarmente idoneo per bloccare invisibili snodi
strategici dei guerriglieri, e le spighe dei campi coltivati erano diventate il terreno da proteggere
contro pericolose minacce tattiche dal magico mondo di altrove. I soldati delle Nazioni Unite che si
erano trovati sul posto non avevano a disposizione una mappatura delle aree dove gli ordigni erano
stati liberati, ma avevano scoperto subito che avrebbero dovuto passare il loro tempo a disinnescare
alberi coperti di esplosivo.
Grandi blindati bianchi si muovevano in colonna da un paesino all’altro, mentre macinavamo
chilometri in un autobus sgangherato.
Eravamo arrivati a destinazione al tramonto, con una luce leggera e arancione. L’accoglienza era
quella fredda dei buchi di mortaio che riempivano le case e dalle tombe scoperchiate nel cimitero
vicino al municipio. Sulla linea di orizzonte davanti a noi, capeggiava un minareto fatto a pezzi per
snidare i cecchini.
Eravamo ovattati da un’atmosfera surreale dove il muezzin cantava, e la sua voce diffusa da precari
altoparlanti veniva interrotta solo dal rumore degli F-16 israeliani che volavano bassi sulle nostre teste.
Qualche pezzo di muro restava in piedi, imperterrito.
Il resto, macerie.
Dovunque posassi lo sguardo, ferite di umanità aperte ed infette. Si depositava sulle mani quell’
odore inconfondibile ed acre di morte, quel retrogusto salato di lacrime.Stavo facendo i conti con
le mie certezze quotidiane che si frantumavano partendo dalle piccole cose, come poter andare a
prendere un pezzo di pane o portare i fiori davanti ad una tomba. Tutto sembrava irraggiungibile,
segregato in un luogo remoto, chiuso oltre la propria sfera d’azione. I passi erano guidati dalla
paura di essere falciato da un’esplosione appena messi gli anfibi fuori dalla strada bonificata.
Già.
I sensi stavano imparando che il quotidiano è relativo.
Una grande illusione di cui vogliamo essere certi senza esserne soddisfatti.
Era la prima volta nella mia vita in cui capivo davvero l’importanza che dovevo dare alla mia bella
casa in mezzo alla collina, al poter correre liberamente in mezzo al prato. Improvvisamente mi si
era presentato il conto delle cazzate che mi facevano sistematicamente perdere il sonno, delle volte
avrei potuto sorridere invece di rodermi il fegato. Finalmente mi quadrava come mai il ragazzo di
colore che vendeva i giornali in università stava sempre bene mentre avevo sempre un brutto
pensiero a rovinarmi la giornata.
Fa strano pensare di nuovo ora a come sono andate le cose.
Dopo qualche mese da quell’esperienza, avevo iniziato ad analizzare me stesso con nuovi occhi.
Tante nuove domande si erano amalgamate con quello shock di sensazioni, e improvvisamente
avevo iniziato a sfiorare gli istanti racchiuso nella sottile distinzione tra pienezza e vuoto,
nell’equilibrio costante del movimento interiore. Mi ero ritrovato a fissare lo stesso orizzonte da
istanti esattamente opposti e coincidenti, come se i confini non avessero importanza, come se ogni
distanza fosse un granello racchiuso nel minuscolo spazio tra pollice ed indice. Dentro di me si
specchiava l’immensità dell’universo.
Dopotutto, mi era bastato relativamente poco per capirlo.
Avevo iniziato un nuovo percorso, senza neanche rendermene conto.
Nel 2009 la strada mi riportava su un aereo della Middle East Airlines.
Il solito faccione del colonnello Kentucky Fried Chicken con le sue malefiche ali di pollo era pronto
ad accogliermi, un caldo abbraccio promettente di unto a poco prezzo.
Il manifesto della Coca Cola
mi faceva l’occhiolino dicendomi Welcome to Lebanon, colori sgargianti e Photoshop formato
famiglia. La solita paccottaglia ben disposta ai lati dei corridoi cerca di convincerti che non sei mai
sceso dal Boeing e mai riuscirai a farlo.
Solo quando trovi la via per scappare dalle stanzone asettiche e lanciarti nel traffico, realizzi che
effettivamente il tuo corpo ha cambiato collocazione geografica. I clacson sembrano una sinfonia
composta da saggi esperti per svegliarti in modo più incasinato possibile. Appena uscito dalla zona
congestionata da gente con i bagagli, iniziano a cambiare i colori che accompagnano il finestrino.
Anche solo i panni appesi alle finestre, assumono nuove sfumature e compongono diversi
abbinamenti con il cielo e le nuvole. Improvvisamente un entusiasmo nuovo si schiude all’altezza
del plesso solare, e si diffonde in ogni neurone.
La portiera si apre.
Bastano pochi passi per impattare con un universo di suoni e profumi che inizia a spiegarti dove sei
capitato.
A distanza di tre anni nel paese dei Cedri la situazione era un po’ diversa rispetto a quella della mia
prima visita. Certo, c’erano le elezioni e sembrava imminente l’ennesima invasione preventiva. A
Beirut c’era una bellissima calma apparente, quella in cui sembra tutto in ordine e in cui poi dal
niente ti dicono di aspettarti il coprifuoco per la sera dopo. Anche se ormai la prendeva in modo
sportivo, la gente sembrava veramente stufa di potersi ritrovare ancora una volta sotto l’ennesimo
raid dei bombardieri.
Già.
Comprensibilmente.
Questa volta eravamo scesi in quattro per un paio di settimane. Dovevamo valutare i progetti della
nostra associazione, e capire come attivare di potevano attivare nuove dinamiche costruttive per il
futuro. Il sottoscritto si era ritrovato responsabile della missione, finendo per organizzare,
coordinare e verificare gli obiettivi. Il pacchetto prevedeva una fantastica offerta tutto incluso, dove
accanto alla scritta “boss” compariva il neon lampeggiante tipico del rompipalle con cassa e tabella
per rendicontare gli scontrini e le spese.
Avevo una cartellina verde dove dovevo infilare tutti i conti e le fatture. In alcuni momenti ero poco
sopportabile anche a me stesso, ma fortunatamente gli altri non hanno fregato il fucile a qualche
militare per spararmi
Eh già.
Da paranoia.
Prova tu a spiegare cos’ è una fattura in una rosticceria in mezzo al nulla, dove non c’è la cassa e il
proprietario ci mette tutta la sua buona volontà a scrivere qualcosa di incomprensibile su un foglio
del Block Notes.
Ecco.
Questo compito ingrato toccava ad Hadi , che ogni volta provava ad inventarsi qualcosa di nuovo
per far quadrare la burocrazia. Hadi è un ragazzo che studia medicina nella mia città. Abbiamo
smontato insieme una marea di palchi per sopravvivere, e mi ha insegnato un sacco di cose sulla
zona in cui è cresciuto nel Sud del Libano. Per mantenersi e andare avanti con gli esami si fa un
sedere tremendo come molti altri ragazzi che volano via da casa. Durante la missione ha fornito con
misericordia traduzioni dall’arabo all’italiano, e dall’italiano all’arabo. Fondamentalmente ci ha
garantito in modo continuato la sopravvivenza.
Il mio ex coinquilino Roberto si occupava invece delle foto e girava con la sua digitale imbracciata,
assatanato di ritratti. Eravamo simpatici ed eravamo scortati sempre da qualcuno del posto per cui
non ci scambiavano per spie. Il quarto intruso era il vecchio Gian, che da buon cooperante si era
ambientato talmente tanto nel modo di guidare autoctono da prendere in modo naturale una rotonda
contromano di notte.
Avevamo visto tante zone che ti ritrovi sparate nei telegiornali solitamente quando c’è crisi, quando
c’è da parlare dei buchi di proiettile ad altezza uomo conficcati ovunque, o dei bunker mimetizzati
sulla linea di fuoco. Le solite immagini condite di retorica. Ma c’era altro? Noi avevamo incontrato
tante persone, sentito tante storie, respirato profumi diversi e mangiato il miglior Felafel del mondo
accanto al suk di Sidone.
O meglio, di Saida come si dice da quelle parti.
Ci sono capitate tante cose strane, ma dovunque ci hanno accolto per sentire i nostri racconti, per
darci la possibilità di scambiare un pezzo di cielo e vedere quali possono essere le differenze.
Dovunque si trovava il tempo per un tè.
E’ tutto parte di un legame.
Si dice “la mia terra è più importante dell’oro”.
Accogli e sarai accolto.
E’ curioso.
Nel manifesto che abbiamo attaccato in sede, abbiamo anche un paio di foto che forse dovevamo
vendere a qualche giornale. Non sono niente di particolare se si guardano alla svelta, se si scorrono
con sufficienza. Nella prima ci sono tante erbe secche su una collina, e noi in posa con facce
piuttosto tese che fissiamo l’orizzonte. Poi, quasi in sequenza, c’ è semplicemente quello che
avevamo alle nostre spalle: una strada che sale da una piccola valle. Ce ne sono tante, dovunque,
dappertutto. Particolari insignificanti in un qualsiasi altro posto del mondo.
Non lì.
Lì non potevamo esserci. In quei giorni c’erano i posti di blocco, e le Nazioni Unite stavano
mostrando i muscoli impedendo ogni accesso degli stranieri alla solita fascia di sicurezza. Facevi
vedere il passaporto, e qualche soldato dell’esercito libanese scuoteva la testa con aria rassegnata.
Come in una barzelletta, però, quegli sforzi grandi grossi & cattivi erano stati fatti solo sulla strada
principale, ed era bastato fare una via alternativa per non incontrare ostacoli. Certo, non l’avevamo
fatto per divertirci, ma semplicemente perché dovevamo fare degli incontri non prorogabili.
Comunque l’avevamo fatto, ed eravamo pure passati accanto ad una base militare nel farlo. Ci
aveva accompagnato un ragazzo che abitava lì vicino e che lavorava al nostro progetto. Non era
molto convinto neanche lui di portarci dove avevamo fatto le foto, ma ci aveva preso in simpatia . Il
suo ragionamento era stato lineare: quel villaggio di solito non lo radevano al suolo dato che non
era rilevante come punto strategico, quindi era sicuro.
Forse.
Eravamo finiti così senza saperlo sulla prima linea di fuoco, quell’area ristretta che di solito viene
cannoneggiata per pulire la strada della fanteria. L’altra collina davanti a noi era Israele. Quella che
stavamo guardando era una strada che credo portasse in Galilea, e mi sarebbe piaciuto davvero
percorrerla. Avrei voluto sentire anche il loro punto di vista su tante cose, perchè sarebbe stato
giusto farlo…
Ma un rumore di elicottero da guerra in avvicinamento mi aveva riportato molto rapidamente alla
realtà. In pochi attimi eravamo scappati alla velocità del tuono, attanagliati dalla sensazione di tanti
occhi puntati su di noi dalle postazioni mimetizzate che sicuramente avevamo intorno.
Per il resto, si sentiva solo silenzio e tensione.
Raccontarlo ora fa pure fico, ma ogni volta che ci ripenso mi bacio i gomiti per com’è andata. Quel
confine invisibile era come un groppo in gola, di quelli dove fai fatica a deglutire e che non ti
lasciano dormire la notte.
Un grande respiro interrotto, contratto nelle viscere, amaro.
E’ stato strano.
Abbiamo girato tanti posti, e abbiamo anche conosciuto la mitica famiglia Younes che ci ha sfamato
come se fossimo stati tutti loro figli.
Abbiamo ascoltato le mille e una storia da tutti i nostri
compagni di viaggio, abbiamo condiviso la nostra Strada. A volte sono bastati solo sguardi e gesti
per comprendere lunghissimi racconti, come se fossimo padroni di un immenso vocabolario
universale che ci ritroviamo nelle mani quando guardiamo il cielo.
Così, naturalmente, succedono cose meravigliose.
Piccole perle di vita protette dall’Oceano.
Eravamo davanti ad una stazione dell’Orient Express a Sofar quando Hadi ha potuto parlare per
la prima volta con dei Drusi. Mi ricordo che appena ha potuto aveva chiamato a casa, e sembrava in
pace col mondo. Quella stretta di mano sarebbe bastata a giustificare tutti gli sforzi che avevamo
fatto fino a quel momento.
Dall’ombra di quei Cedri non ci saremmo più voluti muovere.
La Strada però chiamava.
Si dice “girare come una trottola”, no?
Una trottola quando si ferma, non è che cade: una trottola quando è stanca rallenta, poi si sdraia ad
osservare il cielo.
Da’ nuovi nomi alle nuvole.
Con calma.
Non è un male, non è pigrizia. E’ che anche lei ha il suo diritto sacrosanto di capire la prospettiva
con cui guarda il mondo.
Anche una trottola ad un certo punto potrebbe avere delle domande a cui
rispondere.
Lo stavo capendo lì, mangiando meravigliosi dolcetti con il miele.
Partirò ancora, e non conoscerò mai un vero ritorno.
Sarà finalmente l’unicità di ogni singolo istante,
l’irripetibilità di ogni frammento impercettibile di vita.
Troverò rifugio quando sarò perduto,
troverò nutrimento quando starò per cadere stremato,
acqua quando dalla mia gola non sapranno uscire più parole.
Accoglierò e sarò accolto,
imparerò nuove fiabe
per cacciare le ombre della notte,
per svegliare dolcemente le prime scintille d’alba,
e saprò che i suoi nuovi raggi
sono il vero oro
che si trova
scavando a fondo
nelle miniere.
(Pzk)