Restiamo Umani – The Reading Movie

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Restiamo Umani Il prossimo 23 febbraio chiuderà definitivamente e senza proroghe questa raccolta fondi per il recupero delle quote mai pervenute. Molte sono le spese che stiamo personalmente affrontando per concludere il progetto e chiediamo gentilmente, a chi di voi può farlo, di sottoscrivere questa raccolta. In questi ultimi 16 giorni dobbiamo trovare nuovi sostenitori, aiutateci a far conoscere questa raccolta fondi in ogni luogo, sui vostri canali, blog, ad amici e conoscenti.. Ringraziandovi anticipatamente per il vostro sostegno ci auguriamo che il nostro e il vostro impegno permetta alle parole di Vittorio di essere conosciute nel mondo. Le sue parole non possono essere dimenticate, devono essere incise nella memoria di tutti per ricordare sempre il cammino impervio di un sognatore che vuole cambiare il mondo per trasformare la vita. Restiamo Umani – The Reading Movie www.restiamoumani.com

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La Jeanne d’Arc della Palestina

Immagine

Per lei, non troveremo mai una sua foto allegata nell’angolo di uno schermo

Non ha un codice per cui si possa votare a suo favore

La telecamera non registra le sue quotidianità in onda, mica è meglio del grande fratello

Non le aspetterà una premiazione, nè un soprannome, nè una cerimonia “post-rivoluzionaria”

Le sue doti non sono arrivate a competere con questioni calde:

La malnutrizione non è una dote

Non è competitivo il “costretti ad essere svegli e bendati”

La residenza in due metri quadri con Bidet non è così attraente

I segni di sofferenza e torture fisiche non sono interessanti da mostrare

Hanaa Shalabi non è altro che un nome facente parte di una lunga noiosa lista

di esseri umani che non le amano le telecamere perchè non investono,

e non sono notizie che fanno pubblicità!

Hanaa Shalabi è la vera “primavera araba”, e prende inizio dalla sua fronte, non da Caos De-construttivo indotto dai media.

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Premio Letterario Tiziano Terzani a Vittorio Arrigoni

Firenze , 04.12.11

Nella maestosità del Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio,
il premio letterario per le culture di pace Tiziano Terzani è stato assegnato a “Gaza – Restiamo Umani”

 

” Ho visto le migliori menti della mia generazione..
perire….
Non ha senso.
Eppure i sensi partecipano attivamente, anche troppo
troppo sensibili, umidi, i miei occhi che sino a qualche ora fa prosciugavano dinnanzi ad un impavido sole.

Non ha senso questo ricambio ingiusto che annerisce la nostra epoca
Le migliori menti emigrano verso altri altrove
lasciando vuoti immensi e silenzio laddove saggezza e insegnamento ci indicavano la direzione.
lasciando a voci effimere e volgari il palcoscenivco del giornalismo,
ma la platea è vuota, deserta,
evacuata
dopo l’eclissi del primo attore.

Le fallaci rimangono e i Terzani migrano, ma questo sa di cinismo.

Il suo ultimo libro mi fa da cuscino,
dei 4 libri che mi sono portato appresso in Palestina, due mesi fa,
nell’ingrato compito di fare da scudo contro i proiettili israeliani diretti ai visi dei civili palestinesi innocenti,
il suo ultimo, unico autore italiano,per me, il migliore, e gli ho consetito il posto d’onore, sebbene voluminoso,
sempre con me infilato nello zaino durante le nostre azioni pacifiste.
Come totem, come testo sacro, come parola di conforto e di vicinanza nell’alienazione generale che la disperazione di muoversi in paesaggi di guerra ti attacca addosso.
Mi è servito molto, son tornato ancora sano e salvo,
allora dciamo che è stato vitale.

Non ho mai avuto modo di comunicare a Tiziano del mio immenso rispetto,
della sua capacità di tirarmi fuori, tramite un’empatica scrittura, il meglio dei miei sentimenti di tolleranza ed armonia con il diverso. L’ Attrazione per le culture differenti e la capacità di immedesimazione nel dolore e nelle gioie altrui.
Questo quello che per primo ho appreso,
questo quel che in me si muove nella sua ombra,
nei miei gesti, intendimenti, velleità di giustizia e onore,
amore.
e lode infinita alla vita nelle sue molteplici sfumature.

non andrò a Palazzo Vecchio,
non perchè la distanza è notevole (per un vero amico non esistono sforzi in eccesso)
ma perchè quel che in me di lui dimora non muore, non pùo andarsene
e allora dirò addio alla sua forma fisica, corporea, carnale
col migliore dei riti che improvviserò in questa stanza oscura.
Immagino una fila di incensi, dei lumi i suoi volumi ed io che strappero e darò fuoco ad alcune delle sue pagine,
auscultando il crepitio delle fiamme e la tua ultima lezione,
avendo cura di lasciare uno spiraglio aperto della mia finestra,
che un alito di vento dall’antico Himalaya possa venire ad augurarti buon viaggio,
dinnanzi al mio viso stupito e contaminato,
di tutta quell’esperienza che con noi hai condiviso e non immaginavi potesse muoversi in massa verso un comune sensibile sentire,
dopo il tuo ultimo respiro.

Ci vediamo infondo a quella strada che in solitudine accolse i tuoi primi passi,
ora rincorrono le tue orme generazioni di uomini fioriti, forti in ideali inossidabili
continua ti prego a guidarci laddove ora ci scrivi in sogni

Vik ”

Da Guerrilla Radio

Premio Firenze per le Culture di Pace

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Il sottile senso del cambiamento (by my friend G. Pescaroli)

Cinque anni fa stavo preparando il mio primo viaggio in Libano. I piccoli dettagli da risolvere
diventavano un passatempo sempre più insistente con il passare dei giorni, e controllare che il
passaporto fosse in regola si trasformava in un mantra ripetuto in ogni mail che ricevevo.
Era l’Ottobre del 2006, un mese esatto dopo la fine della guerra che aveva segnato la calda estate
medio orientale. Una serie di coincidenze iniziate da un campo di lavoro sospeso per gli improvvisi
bombardamenti a luglio, mi avevano catapultato in una delegazione dell’A.r.c.i. destinata ad un
sopralluogo di qualche giorno nel paese dei Cedri.
C’erano stati tanti incontri ufficiali dove il nostro gruppo annotava con cura punti di vista, richieste
e aspettative degli interlocutori più vari. Per farlo ci muovevamo da un luogo all’altro restando in
un continuo stato di viaggio, e i nostri sensi imparavano ad associare gli imput lanciati dai media
con quello che stavamo vivendo.
Erano lì, intorno a noi. La zona occidentale di Beirut portava ancora i segni dei raid, e infinite
punture di zanzara si distendevano sulle maggiori arterie di comunicazione. Andando verso sud le
deviazioni della carreggiata principale diventavano sempre più frequenti, e sembrava non esistesse
più un qualsiasi sottopassaggio che non fosse stato puntualmente centrato da un missile.
Il ricordo più vivo che ho, è quello che associo ad un villaggio al confine chiamato Bint Jbeil. A
distanza di tanto, le foto che si trovano su Google mi danno lo stesso identico pugno nello stomaco.
Polvere di guerra che si infila negli occhi, e fa male.
Era in quel punto che la Resistenza Libanese si era attestata bloccando le truppe di Tel Aviv. Gli
ultimi giorni di combattimento, quando era chiaro che la linea non avrebbe ceduto, avevano
piazzato i mortai intorno al villaggio per distruggere quello che si poteva. La stessa opera di
demolizione l’avevano fatta gruppi di caccia che si erano impegnati fino all’ultimo per liberarsi
delle cluster bombs in eccedenza, riversandole su obiettivi mirati scelti da talpe miopi. Il terreno
fangoso vicino alle scuole era risultato così particolarmente idoneo per bloccare invisibili snodi
strategici dei guerriglieri, e le spighe dei campi coltivati erano diventate il terreno da proteggere
contro pericolose minacce tattiche dal magico mondo di altrove. I soldati delle Nazioni Unite che si
erano trovati sul posto non avevano a disposizione una mappatura delle aree dove gli ordigni erano
stati liberati, ma avevano scoperto subito che avrebbero dovuto passare il loro tempo a disinnescare
alberi coperti di esplosivo.
Grandi blindati bianchi si muovevano in colonna da un paesino all’altro, mentre macinavamo
chilometri in un autobus sgangherato.
Eravamo arrivati a destinazione al tramonto, con una luce leggera e arancione. L’accoglienza era
quella fredda dei buchi di mortaio che riempivano le case e dalle tombe scoperchiate nel cimitero
vicino al municipio. Sulla linea di orizzonte davanti a noi, capeggiava un minareto fatto a pezzi per
snidare i cecchini.

Eravamo ovattati da un’atmosfera surreale dove il muezzin cantava, e la sua voce diffusa da precari
altoparlanti veniva interrotta solo dal rumore degli F-16 israeliani che volavano bassi sulle nostre teste.
Qualche pezzo di muro restava in piedi, imperterrito.
Il resto, macerie.
Dovunque posassi lo sguardo, ferite di umanità aperte ed infette. Si depositava sulle mani quell’
odore inconfondibile ed acre di morte, quel retrogusto salato di lacrime.Stavo facendo i conti con
le mie certezze quotidiane che si frantumavano partendo dalle piccole cose, come poter andare a
prendere un pezzo di pane o portare i fiori davanti ad una tomba. Tutto sembrava irraggiungibile,
segregato in un luogo remoto, chiuso oltre la propria sfera d’azione. I passi erano guidati dalla
paura di essere falciato da un’esplosione appena messi gli anfibi fuori dalla strada bonificata.
Già.
I sensi stavano imparando che il quotidiano è relativo.
Una grande illusione di cui vogliamo essere certi senza esserne soddisfatti.
Era la prima volta nella mia vita in cui capivo davvero l’importanza che dovevo dare alla mia bella
casa in mezzo alla collina, al poter correre liberamente in mezzo al prato. Improvvisamente mi si
era presentato il conto delle cazzate che mi facevano sistematicamente perdere il sonno, delle volte
avrei potuto sorridere invece di rodermi il fegato. Finalmente mi quadrava come mai il ragazzo di
colore che vendeva i giornali in università stava sempre bene mentre avevo sempre un brutto
pensiero a rovinarmi la giornata.
Fa strano pensare di nuovo ora a come sono andate le cose.
Dopo qualche mese da quell’esperienza, avevo iniziato ad analizzare me stesso con nuovi occhi.
Tante nuove domande si erano amalgamate con quello shock di sensazioni, e improvvisamente
avevo iniziato a sfiorare gli istanti racchiuso nella sottile distinzione tra pienezza e vuoto,
nell’equilibrio costante del movimento interiore. Mi ero ritrovato a fissare lo stesso orizzonte da
istanti esattamente opposti e coincidenti, come se i confini non avessero importanza, come se ogni
distanza fosse un granello racchiuso nel minuscolo spazio tra pollice ed indice. Dentro di me si
specchiava l’immensità dell’universo.
Dopotutto, mi era bastato relativamente poco per capirlo.

Avevo iniziato un nuovo percorso, senza neanche rendermene conto.
Nel 2009 la strada mi riportava su un aereo della Middle East Airlines.
Il solito faccione del colonnello Kentucky Fried Chicken con le sue malefiche ali di pollo era pronto
ad accogliermi, un caldo abbraccio promettente di unto a poco prezzo.

Il manifesto della Coca Cola
mi faceva l’occhiolino dicendomi Welcome to Lebanon, colori sgargianti e Photoshop formato
famiglia. La solita paccottaglia ben disposta ai lati dei corridoi cerca di convincerti che non sei mai
sceso dal Boeing e mai riuscirai a farlo.

Solo quando trovi la via per scappare dalle stanzone asettiche e lanciarti nel traffico, realizzi che
effettivamente il tuo corpo ha cambiato collocazione geografica. I clacson sembrano una sinfonia
composta da saggi esperti per svegliarti in modo più incasinato possibile. Appena uscito dalla zona
congestionata da gente con i bagagli, iniziano a cambiare i colori che accompagnano il finestrino.
Anche solo i panni appesi alle finestre, assumono nuove sfumature e compongono diversi
abbinamenti con il cielo e le nuvole. Improvvisamente un entusiasmo nuovo si schiude all’altezza
del plesso solare, e si diffonde in ogni neurone.
La portiera si apre.
Bastano pochi passi per impattare con un universo di suoni e profumi che inizia a spiegarti dove sei
capitato.
A distanza di tre anni nel paese dei Cedri la situazione era un po’ diversa rispetto a quella della mia
prima visita. Certo, c’erano le elezioni e sembrava imminente l’ennesima invasione preventiva. A
Beirut c’era una bellissima calma apparente, quella in cui sembra tutto in ordine e in cui poi dal
niente ti dicono di aspettarti il coprifuoco per la sera dopo. Anche se ormai la prendeva in modo
sportivo, la gente sembrava veramente stufa di potersi ritrovare ancora una volta sotto l’ennesimo
raid dei bombardieri.
Già.
Comprensibilmente.
Questa volta eravamo scesi in quattro per un paio di settimane. Dovevamo valutare i progetti della
nostra associazione, e capire come attivare di potevano attivare nuove dinamiche costruttive per il
futuro. Il sottoscritto si era ritrovato responsabile della missione, finendo per organizzare,
coordinare e verificare gli obiettivi. Il pacchetto prevedeva una fantastica offerta tutto incluso, dove
accanto alla scritta “boss” compariva il neon lampeggiante tipico del rompipalle con cassa e tabella
per rendicontare gli scontrini e le spese.
Avevo una cartellina verde dove dovevo infilare tutti i conti e le fatture. In alcuni momenti ero poco
sopportabile anche a me stesso, ma fortunatamente gli altri non hanno fregato il fucile a qualche
militare per spararmi
Eh già.
Da paranoia.
Prova tu a spiegare cos’ è una fattura in una rosticceria in mezzo al nulla, dove non c’è la cassa e il
proprietario ci mette tutta la sua buona volontà a scrivere qualcosa di incomprensibile su un foglio
del Block Notes.
Ecco.
Questo compito ingrato toccava ad Hadi , che ogni volta provava ad inventarsi qualcosa di nuovo
per far quadrare la burocrazia. Hadi è un ragazzo che studia medicina nella mia città. Abbiamo
smontato insieme una marea di palchi per sopravvivere, e mi ha insegnato un sacco di cose sulla
zona in cui è cresciuto nel Sud del Libano. Per mantenersi e andare avanti con gli esami si fa un
sedere tremendo come molti altri ragazzi che volano via da casa. Durante la missione ha fornito con
misericordia traduzioni dall’arabo all’italiano, e dall’italiano all’arabo. Fondamentalmente ci ha
garantito in modo continuato la sopravvivenza.
Il mio ex coinquilino Roberto si occupava invece delle foto e girava con la sua digitale imbracciata,
assatanato di ritratti. Eravamo simpatici ed eravamo scortati sempre da qualcuno del posto per cui
non ci scambiavano per spie. Il quarto intruso era il vecchio Gian, che da buon cooperante si era
ambientato talmente tanto nel modo di guidare autoctono da prendere in modo naturale una rotonda
contromano di notte.
Avevamo visto tante zone che ti ritrovi sparate nei telegiornali solitamente quando c’è crisi, quando
c’è da parlare dei buchi di proiettile ad altezza uomo conficcati ovunque, o dei bunker mimetizzati
sulla linea di fuoco. Le solite immagini condite di retorica. Ma c’era altro? Noi avevamo incontrato
tante persone, sentito tante storie, respirato profumi diversi e mangiato il miglior Felafel del mondo
accanto al suk di Sidone.
O meglio, di Saida come si dice da quelle parti.
Ci sono capitate tante cose strane, ma dovunque ci hanno accolto per sentire i nostri racconti, per
darci la possibilità di scambiare un pezzo di cielo e vedere quali possono essere le differenze.
Dovunque si trovava il tempo per un tè.
E’ tutto parte di un legame.
Si dice “la mia terra è più importante dell’oro”.
Accogli e sarai accolto.
E’ curioso.
Nel manifesto che abbiamo attaccato in sede, abbiamo anche un paio di foto che forse dovevamo
vendere a qualche giornale. Non sono niente di particolare se si guardano alla svelta, se si scorrono
con sufficienza. Nella prima ci sono tante erbe secche su una collina, e noi in posa con facce
piuttosto tese che fissiamo l’orizzonte. Poi, quasi in sequenza, c’ è semplicemente quello che
avevamo alle nostre spalle: una strada che sale da una piccola valle. Ce ne sono tante, dovunque,
dappertutto. Particolari insignificanti in un qualsiasi altro posto del mondo.
Non lì.

Lì non potevamo esserci. In quei giorni c’erano i posti di blocco, e le Nazioni Unite stavano
mostrando i muscoli impedendo ogni accesso degli stranieri alla solita fascia di sicurezza. Facevi
vedere il passaporto, e qualche soldato dell’esercito libanese scuoteva la testa con aria rassegnata.
Come in una barzelletta, però, quegli sforzi grandi grossi & cattivi erano stati fatti solo sulla strada
principale, ed era bastato fare una via alternativa per non incontrare ostacoli. Certo, non l’avevamo
fatto per divertirci, ma semplicemente perché dovevamo fare degli incontri non prorogabili.
Comunque l’avevamo fatto, ed eravamo pure passati accanto ad una base militare nel farlo. Ci
aveva accompagnato un ragazzo che abitava lì vicino e che lavorava al nostro progetto. Non era
molto convinto neanche lui di portarci dove avevamo fatto le foto, ma ci aveva preso in simpatia . Il
suo ragionamento era stato lineare: quel villaggio di solito non lo radevano al suolo dato che non
era rilevante come punto strategico, quindi era sicuro.

Forse.
Eravamo finiti così senza saperlo sulla prima linea di fuoco, quell’area ristretta che di solito viene
cannoneggiata per pulire la strada della fanteria. L’altra collina davanti a noi era Israele. Quella che
stavamo guardando era una strada che credo portasse in Galilea, e mi sarebbe piaciuto davvero
percorrerla. Avrei voluto sentire anche il loro punto di vista su tante cose, perchè sarebbe stato
giusto farlo…
Ma un rumore di elicottero da guerra in avvicinamento mi aveva riportato molto rapidamente alla
realtà. In pochi attimi eravamo scappati alla velocità del tuono, attanagliati dalla sensazione di tanti
occhi puntati su di noi dalle postazioni mimetizzate che sicuramente avevamo intorno.
Per il resto, si sentiva solo silenzio e tensione.

Raccontarlo ora fa pure fico, ma ogni volta che ci ripenso mi bacio i gomiti per com’è andata. Quel
confine invisibile era come un groppo in gola, di quelli dove fai fatica a deglutire e che non ti
lasciano dormire la notte.
Un grande respiro interrotto, contratto nelle viscere, amaro.

E’ stato strano.
Abbiamo girato tanti posti, e abbiamo anche conosciuto la mitica famiglia Younes che ci ha sfamato
come se fossimo stati tutti loro figli.

Abbiamo ascoltato le mille e una storia da tutti i nostri
compagni di viaggio, abbiamo condiviso la nostra Strada. A volte sono bastati solo sguardi e gesti
per comprendere lunghissimi racconti, come se fossimo padroni di un immenso vocabolario
universale che ci ritroviamo nelle mani quando guardiamo il cielo.

Così, naturalmente, succedono cose meravigliose.
Piccole perle di vita protette dall’Oceano.
Eravamo davanti ad una stazione dell’Orient Express a Sofar quando Hadi ha potuto parlare per
la prima volta con dei Drusi. Mi ricordo che appena ha potuto aveva chiamato a casa, e sembrava in
pace col mondo. Quella stretta di mano sarebbe bastata a giustificare tutti gli sforzi che avevamo
fatto fino a quel momento.

Dall’ombra di quei Cedri non ci saremmo più voluti muovere.

La Strada però chiamava.
Si dice “girare come una trottola”, no?
Una trottola quando si ferma, non è che cade: una trottola quando è stanca rallenta, poi si sdraia ad
osservare il cielo.
Da’ nuovi nomi alle nuvole.
Con calma.

Non è un male, non è pigrizia. E’ che anche lei ha il suo diritto sacrosanto di capire la prospettiva
con cui guarda il mondo.

Anche una trottola ad un certo punto potrebbe avere delle domande a cui
rispondere.
Lo stavo capendo lì, mangiando meravigliosi dolcetti con il miele.
Partirò ancora, e non conoscerò mai un vero ritorno.
Sarà finalmente l’unicità di ogni singolo istante,
l’irripetibilità di ogni frammento impercettibile di vita.
Troverò rifugio quando sarò perduto,
troverò nutrimento quando starò per cadere stremato,
acqua quando dalla mia gola non sapranno uscire più parole.
Accoglierò e sarò accolto,
imparerò nuove fiabe
per cacciare le ombre della notte,
per svegliare dolcemente le prime scintille d’alba,
e saprò che i suoi nuovi raggi
sono il vero oro
che si trova
scavando a fondo
nelle miniere.

(Pzk)

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Inoltrato: Sciopero della fame di chi sta fuori dal carcere in solidarietà con i palestinesi nelle carceri israeliane

«Durante le “indagini” mi facevano stare voltato contro il muro con le mani legate ed una gamba alzata. Se appoggiavo la gamba mi picchiavano. Oppure mi sedevano su una sedia con la meni legate dietro e i piedi legati in maniera da farmi tenere le gambe divericate, poi mi davano calci sulla pancia e sull’inguine. Mi facevano stare tutto il giorno sotto il sole. Se avevo sete una soldatessa versava l’acqua a pochi centimetri dal mio volto in modo che cadesse per terra. Sono stato 30 giorni in isolamento in una stanza di un metro per un metro. Le “indagini” sono durate 70 giorni. Avevo 16 anni»
(Saber, Beit Hannoun)
I prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane vengono sottoposti a tortura, ci sono prigionieri minorenni, vengono imprigionati in detenzione amministrativa senza nessuna accusa. Ai prigionieri provenienti da Gaza è proibito vedere le proprie famiglie, come forma di punizione collettiva conseguente all’imprigionamento dl soldato Gilad Shalid. Il fatto che vengano imprigionati in prigioni situate nei territori del ’48 e non a Gaza o nella Cisgiordania è contrario alla legislazione internazionale.
Da 10 giorni ormai i prigionieri si rifiutano di mangiare e di collaborare in alcun modo con le autorità carcerarie. Hanno indetto uno sciopero della fame di durata indeterminata. La loro situazione si è aggravata in seguito ad una dichiarazione di Netaniahu, che, nel giugno 2011 chiede che vengano aboliti «i privilegi garantiti ai prigionieri palestinesi». Ma di quali privilegi stiamo parlando? Le richieste dei prigionieri palestinesi includono:
– la fine dell’isolamento dei prigionieri (alcuni dei quali sono in isolamento da 10 anni) in particolare la fine dell’isolamento per Akhmed Sa’adat, leader del PFLP
– consentire di avere un’istruzione e studiare in carcere
– consentire le visite dei familiari (in particolare per i prigionieri di Gaza, a cui sono proibite)
– fine delle multe
– fine delle incursioni e delle perquisizioni umilianti in carcere.
– smettere di legare mani e piedi dei prigionieri quando ci sono le visite delle famiglie e degli avvocati
– cure per chi è ammalato
A causa di questo sciopero della fame i detenuti vengono repressi con la forza. I sionisti hanno messo in isolamento dozzine di detenuti e spostato i leader della protesta. Si è fermata la distribuzione dei medicinali anche per i prigionieri più anziani, che non ricevono nè cure nè cibo. Sono stati loro tolti i sali che gli scioperanti usavano per mantenere un quantitativo salutare di sali nel corpo durante il digiuno, sono state fatte incursioni e perquisizioni nelle celle, e sono stati usati lacrimogeni contro i detenuti.
In solidarietà alla protesta ci sono manifestazioni sia a Gaza che nella Cisgiordania, e ci sono decine di palestinesi che si aggiungono allo sciopero della fame pur non trovandosi in carcere. Qui a Gaza, in particolare, è stata allestita una tenda vicino alla sede della croce rossa per chi digiuna. Da questa sera, anche io e altri ISMers, per quello che potrà servire a conveire l’attenzione sulla loro protesta, ci uniremo a questo sciopero delle fame.
Silvia Todeschini


venite adesso alla prigione
state a sentire sulla porta
la nostra ultima canzone
che vi ripete un’altra volta
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti,
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti.
(Fabri)
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Da Baruda.net : Esercito israeliano: magliette e foto ricordo di un genocidio

Esercito israeliano: magliette e foto ricordo di un genocidio.

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Pezzo della poesia “Ahmad l’arabo” di Mahmoud Darwish tradotto da me ( A ViK)

Allora vai profondo nel mio sangue ..

e vai profondo nella farina

per farci infettare dalla semplice patria e dall’opzione del gelsomino

… e a lui gli inchini dell’autunno

a lui i commandamenti dell’arancia

a lui le poesie nell’emorragia

a lui le rughe delle montagne

a lui le grida

a lui il matrimonio

a lui i giornali colorati

a lui i funerali rassicuranti

i manifesti sulle mura

la scienza

la civiltà

il gruppo corale

Il decreto di lutto

e tutto tutto tutto

quando il suo viso si scopre a coloro che vanno ai lineamenti del suo viso

tu, ahmad lo sconosciuto!Vittorio

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Macchie settembrine

 Ritorna "Sabra" l’incubo e "Chatila" l’orrore, a precipitare pezzi umani esalati ovunque: sui cumuli di spazzatura, sui marciapiedi, nelle strette strade del campo. Tanti anni dopo il 16 settembre 1982 , una passeggiata nel mercato affollato di Sabra mi imprime una sensazione fatta di sguardi e di chiacchiere. Il massacro non l’ho vissuto ma ho percepito la crudeltà del tempo impietoso che ha attraversato il passato peggiorando..anno dopo anno!

                                                       <<<<<<<< >>>>>>>>>

 Poche persone si son radunati vicino alla farmacia "Bostros".
Da qui partirono i primi colpi reattivi all’invasione di Beirut.
Colpi aconfessionali in un’ambiente acido di guerra incivile.
 Tra la folla, a commemorare la fondazione c’erano Mazen, Ismail,..
 eroi dimenticati nella nostra piccola storia,
 sconosciuti solo perchè sono rimasti vivi,
 e alle spalle tanti cari decomposti sulla fronte e sulle aride strade ottantesche.
 
  Mi ha spremuto il cuore delle lacrime sospese quando ottengo, mancia di verità
 della loro vita misteriosa, sconosciuta da tanti, così povera di orgoglio.
  Vivono per pagare l’istruzione del prossimo e le medicine per malattie croniche.
   Tra di loro, chi dice: "Le schegge sono ormai un ricordo, ma non l’occupazione".
 
 Omaggio a quella generazione che ha compiuto atti gloriosi e dignitosi nei tempi più duri.
 
  
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Quale patria vuoi

 

 

 Esce dal suo presente e si chiede,
Quale patria vuoi?
Recita delle citazioni:
marcando le sponde della sua terra, disegnate dai martiri con le loro penne rosse.
Sì , quella del ferro bollente  e del fuoco che frega!

 Scende dalla sua croce arruginita..smaltita
Non teme l’altezza
Non incita alla risurrezione, nè alla consacrazione.
 E..
Hanno bruciato le vigne divine ben due volte, lì dalle grotte..
E Qana continua a gridare, a rifare vite e dare..per poi crollare!
Il boia ha ombreggiato la mela gialla di quel giorno..così acido
da far piovere stimolanti caotici, tanto amati dai bambini,
e fu così che sognarono per sempre..
 
  Un pezzo nel globo molto amato e odiato
 ricacciante e invasivo
 in un cuore chiuso con denti
 che si dichiarano vittime, anche della loro patria
 ma mai perdenti.

  cadmous

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Un lungo film americano


 Vivere i contenuti di una giornata per venti nove anni. Il quadro sociale somiglia ai diari di un ospedale psichiatrico agitato e violento. Come il diario di una delle notti nella nostra città. Beirut città, Beirut l’ospedale, il Libano in miniatura, il luogo dei ricordi amarissimi che non perdonano.
  Ogni notte di morte che l’attraversa in successione rende le sue strade sempre più deserte, più strette.. si raggomitola. Come se le strade non rimangono più strade.Perchè tutto porta al mare. Il suo mare non è salato, ma è una voglia tenera momentanea la quale un unico proiettile la ravvolge.
 La sua paura inghiottisce il mare ; quando litighiamo, quando ci pichiamo, quando eleggiamo, quando ci arrabbiamo, quando piangiamo, quando perdiamo, quando vinciamo e ogni qualvolta che respiriamo la violenza intrattenuta dentro di noi, perde la sua anima. Beirut torna la mattina, ma non perchè è la fenice. Perchè è come noi e come il mare, ha un adattamento alla morte di sera e la risurrezione travolta stanca al mattino. Come se la morte e la risurrezione fossero la maledizione infinita di Dio su di essa!

 Con quanta facilità è sparso il sangue, e si sparge? Quale percorso storico ha stabilito che questo posto può stare in pace in queste condizioni? Perchè si continua a dire,dobbiamo convivere e non vivere? Fino a quando la stabilità politica rimarrà determinante la stabilità sociale? Perchè darci "dell’onore democratico" solo perchè non ci siamo sparati durante le elezioni (come era previsto) ?
 "Rispondimi dottore, perchè non mi rispondi?!" ,  frase ispirata dallo spettacolo teatrale "Un lungo film americano" (1980) di Ziad Al Rahbani , detta dal psicopatico che chiede al suo dottore delle spiegazioni per la situazione libanese nella guerra civile. Tra i pazienti non c’era nessuno che amava le salme. Ma noi sì. Siamo malati di amare la salma della nostra realtà.
 Chiedetelo a Beirut. Chiedetela sulle salme delle nostre idee e nostro linguaggio. Chiedetela di ogni notte quando torniamo nei pacchetti delle nostre età stanchi, depressi, tristi e furiosi. Chiedetele della nostra decomposizione notturna. Chiedetela dell’odore della nostra violenza che si distribuisce in aria.

 

 Visto che tre anni fa, come oggi, era il primo giorno della guerra di luglio, spero che questa società invece di farsi male continuamente, riesca ad unirsi attenuando le ferite di una città come Beirut che ha subito enormi danni dallo stato sionista. Resistenza sempre

                                                                                                                                                                                cadmous
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